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L'intervista con la Prof.ssa Patrizia Riso, ordinaria di Nutrizione Umana all’Università di Milano e coordinatrice del gruppo di ricerca sulla Nutrizione Personalizzata all’interno di OnFoods.

Stefania Divertito
Journalist and Press Officer
Sarà l’occasione per mostrare come tecnologie avanzate e dati individuali (dalla genetica alla metabolomica) stanno trasformando l’approccio alla dieta: non si tratta più solo di sostenibilità, ma di efficacia reale, salute e accettabilità personale. Ne parliamo in questa intervista con la Prof.ssa Patrizia Riso, ordinaria di Nutrizione Umana all’Università di Milano e coordinatrice del gruppo di ricerca sulla Nutrizione Personalizzata all’interno di OnFoods.
Benvenuti nel futuro della nutrizione “cucita su misura”.
Professoressa, partiamo dalla dieta plant-based. Con questo termine si indica un modello alimentare che dà ampio spazio a frutta, verdura, legumi, cereali integrali, frutta secca e semi, riducendo invece il consumo di alimenti di origine animale. È una prospettiva che oggi richiama molta attenzione, sia per i potenziali benefici sulla salute sia per il minor impatto ambientale. Quanto e come, a suo avviso, questo approccio si integra con lo sviluppo di modelli alimentari sostenibili e personalizzati, su cui negli ultimi tre anni ha lavorato OnFoods?
All’interno di OnFoods, e in particolare nel gruppo da me coordinato che si concentra nulla nutrizione, ci occupiamo di lavorare su nuovi modelli di alimentazione sostenibile, anche personalizzati, sulla base delle differenze che si osservano nella popolazione da vari punti di vista (banalmente per differenze di età, sesso, stato fisiologico e stile di vita fino a caratteristiche più specifiche ad esempio di tipo genetico e metabolico), in modo che tali modelli siano adeguati a coprire le esigenze di tutti gli individui dal punto di vista nutrizionale e con effetto importante anche nella prevenzione delle principali patologie croniche.
La nostra ricerca parte quindi da un quadro generale in cui la letteratura scientifica ci dà già una buona disponibilità di dati sull’impatto favorevole dei modelli alimentari sostenibili. La maggior parte proviene da studi osservazionali ma anche di intervento dietetico, che mettono a confronto chi segue un’alimentazione maggiormente plant-based rispetto a chi consuma una dieta più ricca di prodotti di origine animale.
Ma è fondamentale rafforzare la ricerca sull’adeguatezza dei modelli plant-based, per capire davvero se, oltre a essere sostenibili, siano anche privi di criticità.
Di quali criticità parliamo?
Ad esempio potrebbero esserci insufficienti introduzioni di alcuni micronutrienti che sono presenti in maggiori quantità o con migliore biodisponibilità nei prodotti di origine animale, come evidenziato anche in alcune pubblicazioni recenti.
In questo contesto l’aspetto della personalizzazione diventa ancora più importante, anche perché a gruppi di persone specifici corrispondono bisogni nutrizionali specifici. Penso, ad esempio, al fabbisogno di calcio, ferro o di alcune vitamine fondamentali. È possibile che un modello plant-based, se non ben costruito, non riesca a coprire questi bisogni in modo adeguato.
Questo rischio si può avere anche considerando che sono aumentati, nel bene e nel male, diversi prodotti alternativi a quelli animali per aiutare i consumatori a fare scelte più salutari.
Quindi è importante scendere nel dettaglio: quando gli alimenti di origine animale vengono sostituiti tout court con fonti alternative, il consumatore deve essere consapevole che non sempre riceve da questi prodotti gli stessi nutrienti e non è detto che poi sia capace in modo autonomo di compensare l’assunzione nei pasti successivi. Se al posto di consumare un formaggio si sceglie un analogo di derivazione vegetale che generalmente contiene più fibra e meno grassi saturi, bisogna anche essere sicuri che si stiano introducendo nell’organismo le stesse quantità di micronutrienti e che non ce ne siano altri in abbondanza, come il sodio presente nel sale, il cui apporto eccessivo può risultare invece dannoso.
Un lavoro del genere è quindi in continuo aggiornamento e si alimenta di competenze molto eterogenee. In che modo, all’interno di OnFoods, riuscite a far dialogare approcci e metodologie così diversi per sviluppare modelli alimentari realmente efficaci e personalizzati?
Certo, c’è tantissimo da fare ed è importante che si mettano a sistema tutte le diverse competenze di OnFoods per lavorare a vari livelli. In realtà, all’interno del progetto, ci sono svariati studi di intervento dietetico, con modelli che non sono identici tra loro, anche quando si occupano degli stessi cluster di persone e l’obiettivo è di valutarne l’impatto. E’ difficile che possa esistere una dieta “standard” per tutti e sappiamo come a volte gli approcci generici non funzionano e finiscano per scoraggiare le persone. Potrebbero essere utili invece modelli alimentari personalizzati, pensati per adattarsi ai bisogni di ciascuno. E’ una grande sfida ma solo così si possono ottenere risultati più efficaci, e magari anche in tempi più rapidi.
Ecco, la forza scientifica del lavorare in modo sistemico e in team, unendo le diverse competenze e capacità presenti in OnFoods per sviluppare alimenti e modelli alimentari sostenibili, innovativi, quasi modellati artigianalmente sulla persona – ma soprattutto science-based.
Quando si parla di “piano personalizzato” si parla proprio di un'implementazione sul singolo individuo quindi…
Sì, la nutrizione personalizzata rappresenta una vera e propria frontiera. È un approccio che considera molte variabili individuali: dal profilo genetico a quello metabolico e funzionale, fino allo stile di vita.
All’interno di OnFoods diversi progetti stanno studiando queste interazioni per promuovere approcci di nutrizione di precisione.
Il progetto OBI-WAN-DIET, coordinato dall’Università di Parma, ad esempio, analizza in gruppi di soggetti con sovrappeso-obesità la risposta individuale a una dieta ricca di polifenoli – composti bioattivi presenti in frutta, verdura, caffè, tè, olio d’oliva e altri alimenti. Non tutti li metabolizziamo nello stesso modo: la risposta può variare molto da persona a persona, anche all’interno dello stesso gruppo. Capire queste differenze permette di ottenere risultati migliori, ad esempio nelle strategie per la perdita di peso o per il miglioramento di parametri metabolici.
Un altro progetto di grande rilievo è DE LEGUMINIBUS, dell’Università Federico II di Napoli. Qui si studia l’effetto della sostituzione delle carni rosse con legumi su diversi marker di salute, analizzando anche il ruolo del microbiota intestinale, che può influenzare fortemente l’esito di un intervento dietetico.
Questo ci porta a un tema centrale: lo stesso stimolo può generare risposte molto diverse, alcune positive e altre meno. Ma c’è anche un altro aspetto cruciale, quello dell’accettabilità dei modelli alimentari.
Nello studio INSTEAD, che coordiniamo all’Università di Milano, stiamo validando scientificamente il modello alimentare MED_EAT-IT: un modello plant-based pensato per essere totalmente personalizzabile, non solo sulle caratteristiche dell’individuo ma anche sulle sue preferenze alimentari. L’obiettivo è ridurre al minimo l’impatto ambientale senza eliminare del tutto i prodotti animali, ma sostituendoli in modo mirato per mantenere la qualità nutrizionale, rispettare i gusti delle persone e promuovere migliori risposte metaboliche. Sappiamo infatti che diete troppo restrittive difficilmente funzionano.
I primi risultati sono promettenti: questo modello non solo mostra una buona accettabilità, ma porta anche benefici alla salute, come la riduzione del colesterolo LDL, soprattutto nei soggetti con valori iniziali più elevati. Ora stiamo clusterizzando i volontari dello studio per capire chi ha avuto i maggiori vantaggi e perché. In questo modo possiamo sviluppare modelli predittivi, uno degli obiettivi principali dello Spoke 4.
Quali strumenti e tecnologie stanno rendendo possibile oggi una nutrizione davvero personalizzata? E che ruolo giocano i dati biologici – come quelli raccolti con la proteomica – nello sviluppo di modelli alimentari e prodotti su misura?
All’Università di Milano, grazie ai fondi del PNRR, abbiamo acquisito una piattaforma proteomica di altissimo livello. La proteomica studia l’insieme delle proteine espresse da un organismo: analizzarle ci permette di comprendere in profondità come ciascun individuo risponde a determinati stimoli, compresi quelli alimentari.
Questo strumento sarà fondamentale per analizzare i campioni biologici raccolti attraverso lo studio INSTEAD – e gli altri studi di intervento dietetico in OnFoods – e ci darà informazioni preziose per costruire in futuro modelli alimentari davvero su misura. Chiaramente queste informazioni si aggiungeranno alle altre ottenute da numerose valutazioni di marcatori che stiamo analizzando nei diversi studi.
L’obiettivo è arrivare a rispondere in modo preciso e personalizzato alle esigenze nutrizionali di ciascuno. E ovviamente, più dati abbiamo – sia a livello fisiologico che molecolare e comportamentale – più siamo in grado di capire in quale cluster inserire ogni individuo, tenendo conto delle sue caratteristiche uniche.
Qui si collega anche il grande tema della formazione dei professionisti
Assolutamente. È un tema portato avanti in Onfoods e declinato in più Spoke. E quando si parla di professionisti non pensiamo solo ai medici o ai nutrizionisti: c'è il professionista della comunicazione col pubblico, quello che ha bisogno di formazione nell’ambito delle aziende alimentari, ad esempio. Si parla sempre di più di alimentazione o tecnologie sostenibili, di nutrizione personalizzata, di alimenti “funzionali” e così via, quindi è importante fare in modo che ci sia un'adeguata informazione e formazione compresa quella dei giovani ricercatori.
Certamente un importante focus della comunicazione e formazione è dedicato ai prodotti plant-based per l’alimentazione sostenibile, di cui si è parlato prima. Siamo impegnati in modo interdisciplinare a definirne il bisogno e a migliorarli progressivamente riducendo anche possibili fattori di rischio, come il sale, che è uno dei problemi più grossi perché, per essere appetibili, spesso molte alternative vegetali ne contengono persino di più dei prodotti di origine animale. Scegliere quindi una sostituzione totale dei cibi di origine animale con quelli plant based, potrebbe essere poco efficace dal punto di vista nutrizionale, almeno in questo momento, ma c’è margine di miglioramento, soprattutto se vogliamo adattarli a tutti i profili di consumatori, anche a chi presenta fattori di rischio per la salute.
Ad esempio, in EFFORT, flagship project collaborativo in cui abbiamo lavorato per migliorare la qualità nutrizionale di alcuni prodotti sul mercato (ad esempio per ridurre sale e zuccheri), abbiamo anche analizzato il bisogno di riformulazione di numerose categorie di alimenti, inclusi i vari sostituti plant-based, per poter agevolare il consumatore. È un lavoro di squadra e in futuro sarà necessario avere professionisti a vari livelli con adeguata formazione e informazione sul tema.
Lei ha detto: gli esperti delle tecnologie alimentari devono necessariamente interagire con gli esperti della nutrizione. In che modo?
L’esperto della nutrizione indica un bisogno e una direzione da seguire; il tecnologo alimentare deve trovare il modo per sviluppare strategie al fine di ottenere un prodotto che, pur mantenendo la sua struttura e la sua parte di interazione molecolare, risulti anche accettabile al consumatore. Tra i vari progetti di Spoke 4 ce ne sono alcuni che hanno sviluppato prodotti dedicati al target degli individui con sovrappeso e obesità, ma anche diretti a target vulnerabili come gli anziani e le donne in gravidanza e lavorano proprio secondo queste due direttrici fondamentali: promuovere alimenti che si inseriscano in modelli di alimentazione sostenibile, fornendo tutti i nutrienti necessari, e assicurando che siano sani, sicuri e appetibili. In questo contesto, una delle grandi sfide colte in OnFoods è quella dello sviluppo di approcci biotecnologici per ottenere prodotti plant-based fermentati che rispondano ai diversi bisogni e che saranno probabilmente una forza trainante nel mercato in considerazione dell'aumento della domanda di prodotti naturali, salutari e sostenibili, spinta dai consumatori. Ancora una volta la connessione di conoscenze e competenze diverse diventa essenziale.
Realizzare alimenti sani e al contempo appetibili immagino comporti la ricerca anche di una soluzione di compromesso e aggiustamenti continui. Quanto è complesso questo processo?
La collaborazione tra esperti ci aiuta a rispondere meglio a domande come: che cosa intendiamo per alimento sano? Qual è il prodotto “ideale” nell’ambito di una determinata categoria di alimenti? Che contributo nutrizionale fornisce? E se viene riformulato il prodotto, diventa migliore oppure no? Quale sarà l’effetto dei processi sulla qualità e possono essere migliorati? Come è possibile mantenere un’adeguata accettabilità? Come può essere mantenuta la conservabilità e favorire la semplicità d’uso? E così via…. Ed è proprio qui che entrano in gioco anche gli aspetti tecnologici. Serve una connessione forte tra la ricerca di base e applicata con impatto anche sull’innovazione nelle tecnologie alimentari al fine di promuovere una migliore qualità dell’offerta alimentare per la popolazione.
Quindi, anche se siamo una popolazione mediterranea, non rispettiamo la nostra dieta, invidiata in tutto il mondo, e spesso non raggiungiamo il quantitativo di nutrienti che viene reputato adeguato. Su cosa siamo maggiormente sbilanciati?
Tendenzialmente, la nostra dieta tende a essere troppo povera di carboidrati complessi e di conseguenza più ricca di grassi e proteine, rispetto a ciò che viene raccomandato e la scarsa introduzione di prodotti vegetali e integrali riducono la possibilità di coprire al meglio i fabbisogni di alcuni micronutrienti ma anche di fibra. È qui che entra in gioco l’innovazione per migliorare i prodotti: dopo lo sviluppo in laboratorio, serve uno scale-up industriale che permetta di produrre alimenti su larga scala – magari anche comodi per il consumatore – mantenendone le caratteristiche nutrizionali. E non basta: devono anche essere graditi perché altrimenti non verranno scelti.
Infine, c’è un passaggio fondamentale: l’informazione. Il consumatore deve essere messo nelle condizioni di capire, decidere e scegliere in modo consapevole, in base ai propri gusti ma anche conscio dei propri bisogni e dell’importanza di un’alimentazione sana e sostenibile. Anche in questo caso nello spoke 4 ci sono progetti che se ne occupano come VIRTOOL.
Insomma, ci sono dei fattori culturali su cui lavorare? Quanto sono importanti e radicati? Oppure parliamo solo di abitudini da scalfire?
È chiaro che il tema culturale gioca un ruolo fondamentale. In Italia, rispetto ad altri Paesi, tendiamo a essere un po’ più diffidenti verso tutto ciò che è troppo innovativo, soprattutto quando si parla di alimentazione. C’è una certa resistenza, una forma di sospetto culturale verso gli alimenti nuovi anche se poi, soprattutto le giovani generazioni, tendono a non seguire neppure il modello mediterraneo tradizionale. Dovremmo quindi essere in grado da una parte, di rendere la dieta mediterranea più apprezzabile e fruibile, dall’altra di implementare nuovi alimenti soprattutto plant-based.
Ed è proprio per questo che informazione e comunicazione sono fondamentali.
Comunque, qualcosa a livello culturale si sta muovendo. Per esempio, sono rimasta davvero colpita da un dato: il consumo medio di prodotti alternativi ai burger tradizionali, quelli plant-based, è di circa 42 grammi al giorno.
Considerando che questi prodotti sono consumati da target specifici, vuol dire che chi li sceglie lo fa con costanza e in quantità rilevanti. Ecco perché diventa sempre più importante analizzarli a fondo, capire cosa contengono, e cosa no, e lavorare per migliorarli sotto ogni aspetto — nutrizionale, sensoriale, ma anche comunicativo.
A questo si aggiunge un altro dato importante: mangiamo sempre di più fuori casa. Non solo per necessità, ma anche per piacere e forse anche come reazione al periodo del Covid.
I sistemi di ristorazione sono molto diversi tra loro per qualità del cibo e dell’offerta e il food delivery spesso promuove opzioni poco sostenibili e salutari, e questo vale non solo per i giovani, ma anche per le famiglie. C’è molto da fare anche in questi ambiti per promuovere un’alimentazione sana e sostenibile.
Inoltre è importante anche fare un'ulteriore considerazione, quando parliamo di maggiore sostenibilità degli alimenti e della dieta in generale, pensiamo subito a quella ambientale — ed è giusto — ma dovremmo considerare anche la sostenibilità economica e sociale, aspetti che non sono di minore rilevanza e sono oggetto di analisi in OnFoods soprattutto nello spoke 1 e 7.
Ecco perché la visione sistemica è fondamentale.
Certo: l’approccio multidisciplinare e coordinato è l’unico che ci permette di essere efficaci e speriamo che questo approccio congiunto possa essere ulteriormente promosso nel contesto nazionale e internazionale anche al termine del progetto OnFoods.